TRICHIANA PAESE DEL LIBRO XXV EDIZIONE

 

 

 

 CINQUE CASTAGNE BOLLITE

 

 

La seconda guerra mondiale volgeva alla sua parabola finale: la rabbia, l'odio, la fame sembravano accentuarsi

Era novembre e pioveva quella notte.    Una pioggerella sottile e gelida picchiettava sui vetri, le gocce come piccole dita producevano un lieve e fitto mormorio simile a una ninna nanna.

Da qualche parte nel buio un cane da pagliaio latrava.

Per quanto si rigirasse nel letto, Caterina non riusciva a prendere sonno, accanto al suo tanti lettini lindi accoglievano altrettanti bambini, loro ora dormivano e lei  ascoltava il loro respiro regolare; quando udì dei passi in cortile.

Si  alzò di scatto e da un balcone socchiuso guardò fuori, bene attenta a non farsi scorgere.

La pioggia dava alla notte un  pallore spettrale, lei  lo vide subito, un uomo veniva avanti di fretta; dalla sagoma snella ed eretta si capiva che era  giovane, il volto seminascosto si stagliava contro l’ oscurità, i capelli bagnati erano incollati alla fronte; era ormai zuppo, ma sembrava non farci caso. Poi improvvisamente si udì la sua voce concitata, una voce che Caterina era sicura di aver già sentito:

 _ Nel paese vicino c’è il fuoco…i tedeschi… possono arrivare fino a qui! Bisogna portare via subito i bambini, su nei boschi, su nella montagna del Cesen…_

Erano abituati quei piccoli bimbi ai risvegli improvvisi nel cuore della notte e così senza parlare, con gli occhi gonfi di sonno e  sbarrati dalla paura, in pochi attimi si vestirono, ognuno  prese in mano ciò che aveva di più caro e guidati da Caterina lasciarono la villa che li ospitava e iniziarono la lunga marcia nella notte piovosa  lungo i fianchi della montagna,  per raggiungere un luogo sicuro.

Erano circa venti, erano i bambini rimasti orfani a causa del bombardamento che il 7 aprile del 1944 - Venerdì Santo - dilaniò Treviso; avevano dai sei ai dieci anni.

Grazie all’ intervento del vescovo, avevano potuto lasciare la loro città offesa e quasi del tutto distrutta, per trovare rifugio a Valdobbiadene in un’ ala della Villa dei Cedri, ora sede della mostra dei preziosi vini della zona.

Camminavano silenziosi in fila, i grandi aiutavano i più piccoli, non chiedevano perché, non dicevano nulla, ma lei, Caterina era sicura che in quel momento riaffiorassero nelle loro menti i ricordi e gli incubi che tante volte li svegliavano nel cuore della notte, perché erano gli  stessi incubi che a lei non permettevano di dormire: quando le sembrava di risentire le lugubri sirene che precedevano l’ arrivo delle fortezze volanti con il loro pesante ronzio che venivano a bombardare,  quando le sembrava di avere le gambe bloccate e di non riuscire a correre verso i rifugi…e poi i fischi, i boati, la terra che tremava, poi le macerie fumanti, la città sconvolta, il dolore, la disperazione, la morte…e la fame, sempre la fame.

Era stato per sfuggire a tutto questo che ragazza di diciotto anni, con la sorella e la nonna aveva lasciato Mestre e i genitori, per andare sfollata in un paese vicino a Valdobbiadene.

La guerra era  però ovunque e nemmeno lì poteva ritenersi al sicuro, ma ora c’erano i bambini e per nessuna ragione al mondo li avrebbe lasciati.

Era poco più grande di loro, ma aveva coraggio da vendere e sapeva infondere sicurezza e speranza. Così anche quella notte, i piccoli ebbero fiducia in lei e la seguirono. Camminavano per i boschi cercando di non far rumore, si sentiva solo un fruscio  lieve, simile a scalpiccio di fantasmi che passano, quando calpestavano le foglie secche dei castagni che ormai erano cadute.

La pioggia era diventata più insistente, ma per fortuna le prime luci di un’ alba livida, mostrarono in lontananza una casera abbandonata.

Raggiunsero questo rifugio, vi entrarono e attesero. Non era possibile accendere il fuoco, il fumo  avrebbe potuto tradire la loro presenza. Quei piccoli avevano freddo, fame e paura, ma  c’era Caterina con loro, se c’era lei nulla di male avrebbe potuto capitare. 

 Per intrattenerli un po' ,  raccontò la sua storia, sapeva che erano curiosi:

_ Quando lasciai Mestre, alla fine di aprile, studiavo per diventare maestra, a luglio dovevo diplomarmi. Per tre anni, ogni mattina raggiungevo con la filovia la scuola a Venezia, spesso il viaggio o le lezioni venivano interrotte dagli allarmi, eravamo rimaste solo in dodici alunne; spesso avevo fame, perché il cibo era poco, di sera non potevo studiare perché non si poteva tenere la luce accesa…quante privazioni facevano i miei genitori per pagare la retta e comperarmi i libri !…Da Valdobbiadene, non potevo raggiungere ogni giorno Venezia, ma decisi che non dovevo mollare, non potevo cancellare  anni di sacrifici per colpa di una stupida guerra; sarei diventata maestra comunque.

Così per tre volte tornai a Venezia con mezzi di fortuna, per farmi dare i compiti e i programmi d’ esame, poi  finalmente a fine giugno ero pronta.

Partii presto una mattina, avevo saputo che un’ auto doveva portare da Valdobbiadene a Treviso una ricca signora, le chiesi un passaggio, così avrei fatto gran parte della strada con lei in condizioni sicure. Arrivata però al ponte Vidor, lo trovammo distrutto, non si poteva passare, l’auto tornò indietro, ma io decisi che in qualche modo avrei attraversato il fiume, anche se non sapevo come. Passai quasi tutta la giornata a cercare un guado che non riuscii a trovare.

Camminavo su e giù per una strada delimitata da un pendio rivestito da cespugli ed alberelli, che scendeva ripido verso le rive della Piave; il cielo cominciava ad imbrunire e si specchiava scuro tra le onde, cominciavo a perdere ogni speranza, quando dalla fitta vegetazione uscì un uomo, aveva il viso nascosto dal bavero del giaccone e da un cappellaccio calato sugli occhi; mi chiese minaccioso casa facessi lì dal mattino, era chiaro che mi controllava. Gli spiegai indispettita, più che spaventata, che dovevo ad ogni costo attraversare il fiume e perché.

Fu così che mi trovai dopo qualche ora, nel cuore della notte, in una piccola imbarcazione tirata da una riva all’ altra da corde, ero lì sola a mio rischio e pericolo, tutto poteva capitare! Quando raggiunsi l’ altra sponda il ragazzo mi fece scendere, e  mi accompagnò in un fienile dove avrei passato la notte.

Volevo lasciargli quel po’ di denaro che avevo con me,  gli porsi le due mele che sarebbero state il mio pranzo, non volle nulla; ma  disse con voce seria e perentoria: “A buon rendere! Sono sicuro che ci rivedremo!” Al momento non capivo cosa volesse, ero solo infastidita da quella che mi sembrava impudenza; solo  più avanti, mi fu chiaro cosa intendesse.

Arrivai a Venezia  dopo due giorni, superai l’ esame e tornai a Valdobbiadene 

Il 7 agosto in quella zona, su un colle isolato, si diceva la S.Messa nella piccola chiesa di Sant’ Alberto, custodita da Annetta,  un’ eremita; io mi ero recata con molta fede e pregavo per chiedere la pace e un lavoro per me. Ero assorta nei miei pensieri, quando sentii una mano pesante posarsi sulla mia  spalla: “Non girarti, ascolta! Ĕ giunto il momento di pagare il tuo debito. Ora sei maestra, lo sappiamo e puoi insegnare.

Qui a Valdobbiadene ci sono circa venti bambini orfani, che hanno  bisogno di essere assistiti ed educati, non c’è nessuna altra donna che lo possa fare, solo tu qui hai i requisiti, vai da loro domani.”  Avevo trovato lavoro, ma soprattutto voi!_

Il racconto di Caterina terminò proprio nell’ istante in cui la porta della casera si spalancò, i piccoli spaventati le si nascosero dietro.

Il ragazzone che entrò sembrava occupare con la sua enorme mole tutta la piccola stanza, tirò fuori da una bisaccia di tela cerata alcuni pezzi di pane, formaggio, piccole mele, qualche grappolo d' uva un po' appassito e castagne lesse: _ Mangiate! _ disse _ Non dovete aver paura, restate qui, fino a quando qualcuno verrà a prendervi. _ 

Caterina riconobbe allora la sua voce era la stessa del traghettatore, era quella che a Sant’Alberto  le aveva ordinato di andare dai bambini e che poche ore prima li aveva svegliati  per avvertirli del pericolo e li aveva fatti scappare.

L’ uomo stava per andarsene, _ Ma tu chi sei?_ chiese Caterina, voleva sapere, quel ragazzo, chi era?

Egli si fermò, solo per un istante ancora e rispose sorridendo un po’ sornione: _ Sono l’ Angelo dalla Piave!_   …uscì e sparì nel folto del bosco.

Caterina non lo vide più.

Restarono almeno tre giorni in quel rifugio, faceva freddo, soprattutto di notte e la fame tormentava,   ognuno centellinava il suo pezzo di pane, il formaggio che era poco più di una  crosta, la mela venne consumata a piccoli morsi un po' alla volta,   le castagne e i grappoli d'uva vennero tenuti per ultimi, erano una  leccornia, un piccolo tesoro da gustare ad occhi chiusi.

Pure Caterina mangiò le mele, l'uva, il pane e formaggio, ma tenne in tasca le sue cinque castagne, potevano servire per i bambini; ma i bambini si dimostrarono forti e coraggiosi, riuscendo a superare anche quella prova.

La guerra finì, un po’ alla volta tutto rientrò nella normalità, Caterina tornò a Mestre, insegnò per quasi tutta la  sua vita, si sposò, ebbe due figlie e nipoti; con loro spesso si recava  a   Valdobbiadene, e sempre raccontava questa storia: così, proprio con queste stesse parole.  

Quando era ormai anziana, volle essere accompagnata sul Cesen , dove trovò senza fatica la casera dove si era nascosta; era una costruzione ormai fatiscente, ma all' interno conservava ancora una enorme tavola e qualche sedia. Dopo aver ripulito alla meglio, tolto la  polvere e le ragnatele, si sedette e da uno zainetto di tela verde assai scolorito, tirò fuori: pezzetti di formaggio, fette di pane, mele renette, uva e castagne lesse...poi assaporò il tutto piano, piano quasi con devozione, socchiudendo gli occhi forse  per non far scorgere le sue emozioni.

Pochi pezzi di pane e formaggio, mele selvatiche, uva e castagne lesse le avevano insegnato a credere nella bontà degli uomini e avevano regalato a lei e ai “suoi”  piccoli la speranza.

Caterina era mia mamma.

Quando morì, con mia sorella ho sistemato tutte le sue cose; in una vecchia scatola di biscotti, tra i vari oggettini di poco valore, ricordi dei momenti importanti della vita, c' era un sacchettino di tulle con dentro cinque cosine scure secche e rinsecchite; erano le sue cinque castagne bollite  non mangiate, ma tenute in tasca per i bambini.  

 

 

 

 


 

 

 

QUATTRO NOVEMBRE

 

Quattro novembre.

Anche quest’anno, nel silenzio profondo della sera,

Si alza il tocco triste di una campana.

Veli di nebbia nascondono le montagne.

Foglie accartocciate cadono dai rami degli alberi,

Si appoggiano lievi sulla terra.

Dai camini esce fumo

Che si attorciglia nell’ aria,

Disegna fantasmi grandi e piccoli…

Ed io vi vedo ragazzi di guerra,

Mi venite davanti agli occhi

Correndo fuori dalle vostre trincee,

Triste nido per uccellini portati via dalla mamma.

Vi vedo

Vestiti alla buona,

Pieni di paura.

Morsi dalla fame,

Vi vedo…

E sento un sospiro di gelo dentro l’ anima.

Ormai è passato troppo tempo,

Dissolti nel nulla,

Vivrete solo per qualche attimo,

Nel cuore di chi vi ricorda.

Non avete avuto onori

E qualcuno neppure una piccola croce,

Ma sarete:

Gocce di pioggia che scivola,

Fiocchi di candida neve,

Piccoli raggi di sole.

Correrete per sempre nel vento

Tra i vostri monti.



Al via un laboratorio per piccoli aspiranti poeti

 

Venerdì 17 ottobre 2014, la poetessa Annalisa Pasqualetto Brugin ha aperto il laboratorio di poesia, che coinvolgerà alcune classi della scuola T. Vecellio, per tutto l'anno scolastico.

Vincitrice di premi nazionali ed internazionali, Annalisa Pasqualetto ha insegnato a lungo proprio nella nostra scuola ed ora si dedica con passione alla poesia, tema appunto dell'incontro durante il quale è stata subissata da domande dei piccoli aspiranti poeti.

"Perché hai deciso di fare la poetessa? E' difficile scrivere poesie? Quale aspetto della natura ti ispira?In che lingua scrivi le tue poesie?" sono solo alcune delle domande a cui la poetessa ha risposto fornendo indicazioni e suggerimenti utili per intraprendere il percorso di scoperta e di conoscenza della poesia e del suo "alfabeto".

Al termine dell'incontro l'autrice ha recitato e donato ad ogni bambino copia della sua poesia "Fregoe (Briciole), scritta in dialetto, per far cogliere loro come il poeta sia capace di svelare la meraviglia e l'emozione anche nelle piccole cose.


 FREGOLE  

 

 

Fregole su la tovaja

dessemenae qua e là, a strassacan,

stele de oro picenine,

restesini de pan.

Fregole su la tovaja

che morbinose le se tien in bon.

 

El forner el ga  domà

  l’ aria, el sol,  la tera,   l’ aguasso

  le spighe,   la farina.

E le so man ga dà fatesse 

a l’ aria, al sol, a l’aguasso ,

a le spighe e a la farina:

i gusti de la vita.

 

Fregole de pan su la tovaja,

    bagarine e sbrissariole.

Sgrasende de storia.

Le ga robà l’ oro al gran,

portà via el profumo a la legna

e donà tuto.

 

No bisighele, no barambàgole da sgorlar via,

ma refoli de farina, perle de aqua, spizigade de luse

le fregole de pan su la tovaja.

Le recorda, site, site  e umili

el valor grando de le robe picenine,

e ghe xe senpre ‘na selega su la piera del balcon.


 

ECHI DI ZAMPOGNE

 

E

Poi,

 quando 

scende sul mondo

la notte,

Che cielo d’ incanto!

Da lontananze

Spunta la luna

Che guarda calma

Tramontare l’anno.

Notte di luna, notte di stelle,

Notte che illumina di stupore.

 

Il respiro del vento

Solfeggia sapiente tra i fiocchi di neve.

Illusioni, speranze, desideri

In questa notte dove il tempo è senza tempo.

Spengo i toni alti del mondo

E…di nuovo echi di zampogne,

Stemperano in una pace infinita sofferenze e affanni.

 

È

 la Notte

 Del Santo Natale.

 

 

 

Annalisa Pasqualetto Brugin

Bongiorno a tuti, oramai me so afessionada a 'sto sito e me fa tanto piasser trovar le me poesie. In alegato ne mando una, premiada ani fa, a mi la me piase tanto parchè la xe come un canto de nostal

 

 ALL’ IMPROVVISO

 

 

 

Vorrei

 

Fermare il tempo

 

In questo giorno

 

Che segna la presenza della tua vita.

 

Mi hai svegliata  all’ improvviso,

 

Con meravigliosa sorpresa ti ho sentito,

 

Timidamente festoso:

 

Un fruscio lieve, un frullo d’ali di passero.

 

Mi hai regalato la più forte emozione,

 

  Mi fai vivere una sensazione di sogno .

 

Ti volevo,

 

Sei venuto

 

Ed ora ho compreso:

 

È vero,

 

Ci sei.

 

 Illumini il mio percorso e mi rapisci.

 

Ti sento

 

Come piuma nell’ azzurro cielo,

 

Come cavallo bianco che galoppa nella prateria

 

Come pesciolino d’ oro che guizza nell’ acqua,

 

Ed io sono il tuo cielo, la tua prateria, il tuo mare,

 

Ed io sarò il tuo cielo, la tua prateria, il tuo mare,

 

Per sempre.

 

I miei pensieri danzano,

 

E con ali di fata volano i miei sogni,

 

Perché ora nella mia vita ci sei tu

 

E dò canto alla mia gioia,

 

Aspettando di vederti.

 

 

 

Annalisa Pasquetto Brugin

 

 

 

 

 

 

Cari amissi visini e più cari ancora quei lontani,

 

Xe tornà finalmente el bel tenpo, e  go ‘vuo l’ estro de far un gireto par la canpagna, dove che i contadini jera drio bruscar le vide, forse xe sta par questo che me xe tornà in mente me papà e ‘na tiritera che el me cantava.

 

Come desmentegar la so vose, i so oci, i brassi che me strenseva e l’ estro  che el gaveva.

 

 Senpre lo go in mente e tante volte me sovien e cantusso dentro de mi le tiritere che me ga conpagnà da picenina, che me divertiva  e che me faseva sentir contenta e cocolada, e COL CINCIRIBIN, quanto che ridevo! Ghe sarà chi, che ancora se la ricorda?

 

 

 

COL CINCIRIBIN

 

 

 

Viva Noè, che ga inventà la vigna!

 

Vigna, vigna, vignin col CINCIRIBIN

 

Va in vigna el vin

 

E da vigna in sésto. Oh, che bel sésto!

 

Sésto, sésto, séstin col CINCIRIBIN

 

Va in sésto el vin

 

E da sésto in tino. Oh, che bel tino!

 

Tino, tino, tinin col CINCIRIBIN

 

Va in tino el vin

 

E da tino in bote. Oh, che bela bote!

 

Bote, bote, botin col CINCIRIBIN

 

Va in bote el vin

 

E da la bote in fiasca. Oh, che bela fiasca!

 

Fiasca, fiasca, fiaschin col CINCIRIBIN

 

Va in fiasca el vin

 

E da la fiasca in fiasco. Oh, che bel fiasco!

 

  Fiasco, fiasco, fiaschin col CINCIRIBIN

 

Va in fiasco el vin.

 

E dal fiasco in bossa. Oh, che bela bossa!

 

Bossa, bossa, bossin col CINCIRIBIN

 

Va in bossa el vin.

 

E da la bossa in goto. Oh, che bel goto!

 

Goto, goto, gotin col CINCIRIBIN

 

Va in goto el vin.

 

E dal goto in boca. Oh, che bela boca!

 

Boca, boca, bochin col CINCIRIBIN

 

Va in boca el vin.

 

E da la boca in pansa. Oh, che bela pansa!

 

Pansa, pansa, pansin col CINCIRIBIN

 

Va in pansa el vin.

 

 Caro el me banbin, che no beve ancora vin!

 

COL CINCIRIBIN!

 

 

 

  

 

 

 

 

 

CORIANDOLI

 

 

 

 

 

Pena, pena ‘na refolà,

 

e i coriandoli,

 

tocheti, zinzolini de alegressa incolorii,

 

va su, su in alto,

 

i se leva a capariole ne i bovoli de l’aria.

 

 

 

Finamente libari,

 

libari

 

de scanpar via,

 

libari

 

de svolar.

 

 

 

Morbinosi, picenini, saltarei,

 

biancaissi, indorài, rosa, rossi, zali, verdesini, turchini…

 

bissineli felissi e contenti,

 

bramosi de vòje;

 

pugneti, sbrancà de sogni butai in sen a la baveta de febraro.

 

 

 

Ancùo i pensieri, i afani

 

se sfanta

 

e va de sbrindolon co i coriandoli,

 

i va lesieri come stornei,

 

desfiorai co garbo dal morbin mato del carneval.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Autrice: Annalisa Pasqualetto Brugin

 

Nata a Venezia Mestre il 22-4-1951

 

Residente in via Ospedale 59 30174 Mestre Venezia

 

Tel 041 951109 FAX 041951109 cell. 3456409551

 

 

 

E mail    robertobrugin@virgilio.it

 

 

 

 

 

 

 

 

  GERANEI ROSSI

 

Tante volte,

 Pusada  al tronco del pin grando

Go vardà el troso che se ranpega su dal paese.

El porta a ‘na vecia contrada. 

Da ‘na banda ghe xe ‘na mureta de sassi

Da st’ altra  un ru, che canta

De note e de giorno,‘na   antica canson,

Eterna meodia,

La conta storie de anguane

  Che sentae  sul mus-cio de veludo

   Se specia su  l’  aqua,

Caressae da la luna.

Le se conta i so segreti

 E le speta che se alsa el sol,

 Par ‘ndar a scondarse.

 No le vol che i omeni le veda.

Ma i omeni oramai no ghe xe più,

La vecia contrada xe sta  bandonà.

Le case de piera, piene de crepi xe vode.

Sola xe restà ‘na vecia doneta.

Tante volte, la go vista,  

Col so viso da pometo grinsìo,

Da drìo le coltrine del so balconsin;

Un balconsin tuto fiorio de geranei rossi,

Rossi, come le boche de i putei che ride.

No ghe xe mainconia su la antica contrada

Fin che tuto quel rosso fa da cornise  a la veceta

Che spia  e me saluda, co passo.

   

 

Annalisa Pasqualetto Brugin

 Lode al gaio ceppo festivo!

Balzate fiamme, balzate gioiose.

Salute alla coppa di vino…

 

Aghata Christie Mallowen

 

 

 

UN PISSEGO DE SAL

 

Vissin al camin co me nona

Vivevo momenti de incanto

Vardavo el fogo che slussegava,

Le fiamele che balava, me faseva sognar

E me inbalsamavo de odori.

 

Odori boni,

Odori de un tenpo passà

Che se spandeva ne l’aria portai dal fumo.

 

Come piova de oro

Cascava la farina par la ploenta ne la caliera,

I risi e fegadini che bogiva pianeto

Diseva che gera rivà  l’ inverno.

 

Nel forno, la faraona finiva de ciapar gusto,

La gera stada cusinada de scondon,

Parchè la riceta xe un segreto de fameja. 

Par soragusto,  sul radiceto novelo,

Ne la tarina de porcelana a fiori,

Se meteva un fià de segoleta.

 

Co gera pronto

Se sentavimo torno la tola granda,

Quanti che gerimo!

 

Tuto gera bon, tuti gera contenti,

Ma el nono diseva senpre che:

Mancava  un pissego de sal.

El se godeva far rabiar la nona.

Ma gera Nadal e tuti se  volevimo ben.

 

 

 

 


ANNALISA PASQUALETTO BRUGIN

 

 

… "Questa sera!" esclamarono tutti "questa sera deve splendere!" ' Fosse già sera! ' pensò l'albero 'se almeno le candele fossero accese presto! Che cosa accadrà? Chissà se verranno gli alberi del bosco a vedermi? E chissà se i passerotti voleranno fino alla finestra?…

 

Hans Christian Andersen

 

 

ALBARO DE NADAL

 

   *

El

gera lù

 el me sogno

 de Nadal: un pin.

No inporta se picenin

o grando.

La mama lo meteva

Su un canton de la cusina

el più distante che se podeva dal fogher,

par farlo durar de più.

El spandeva un odor tanto dolse de bosco,

  el faseva s-giosar qualche lagrema de resina biancaissa

che me faseva credar che el fusse drio patir e piansar

 par  aver lassà la so foresta.

Alora caressavo la so scorsa ruspia, le so ramete,

E no ghe badavo se me sponciavo le manine co i so aghi.

Che emossion, che  trepidassion

co picavo balete de vero, lustrini, candelete rosse e de oro

che dormiva par tuto l’ano incartae dentro ‘na scatola de carton,

dove le sognava de essar tirae fora e poder slussegar.

Su la sima  inpiravo un angeo co la stela cometa in testa,

E  metevo qua e là fiocheti de candido bonbaso, par far la neve.

Albaro de Nadal,

contame anca sto ano

‘na storia

de speransa

distante nel tenpo,

 e fame trovar soto le to rame

un sogno che me dura un ano intiero.

 

 

         Annalisa Pasqualetto Brugin  Mestre-Ve

robertobrugin@virgilio.it